Sembra impossibile
ma ormai lo facciamo tutti, tutti noi dotati di smartphone di nuova
generazione: fotografiamo sempre e continuamente tutto e tutti!
Ci è presa la
mania ansiogena di non lasciare scappare nessun secondo della vita: si
fotografa il sole, la pioggia, l'improvvisa nevicata; si immortala quello che
si mangia al ristorante senza lasciare a volte neppure il tempo al cameriere di
posare il piatto che parte il CLICK! della fotocamera e poi si posta e tagga luogo
e persona che ci è vicino, come appunto fosse un buon piatto di cibo appena
servito; si prosegue con la marea di scatti ai figli e nipoti che crescono
fotogramma dopo fotogramma senza lasciare la curiosità di capire cosa succederà
poi; non dimentichiamo poi i vecchi autoscatti di qualche anno fa che ora si
chiamano "selfie", fatti in gruppo, da soli nel bagno di casa, con
alle spalle un'opera d'arte, un tramonto, un vip ignaro, si ferma l'istante su
qualsiasi cosa per paura di perdere il tempo che passa veloce…
Perché questa
paura di perdere l'attimo?
Perché si sente il bisogno di fermare TUTTO quanto
quello che ci passa davanti?
Perché l'uomo ha
paura del tempo che scorre? Con l'ansia del, ad esempio, "devo-fare-assolutamente-questo-prima
dei-miei-40-anni" sembra che non ci sia più spazio per l'attesa ma
solo per l'immortale immortalità da immortalamento.
Così il peso del
tempo, a mio parere, si sente il doppio, si instaura un meccanismo perverso e
fagocitante di non riuscire a fermarsi in tempo per fermare il tempo.
I selfie sono diventati gesti
scaramantici: "Dai facciamo un selfie per fare vedere dove
siamo" (o chi siamo e come siamo!), senza mezzo di scampo si scattano
una quantità indicibile di foto prima di scegliere quella giusta "No! Questa non mi piace, ho i capelli fuori
posto, sto guardando da un'altra parte, sono inguardabile…no! Rifacciamo!"
ansia da prestazione, reset di un istante che non piace e si cancella, poi, una
volta trovato lo scatto giusto, si sistema tutto con un paio di giochi fatto di
filtri e colore virato e la foto è PERFETTA.
Il tempo si è
bloccato, un istante è finito dentro un apparecchio atto alla comunicazione e
l'immagine prenderà il via verso altri lidi social chiamati Facebook,
Instangram, Pintarest…
Chissà cosa
penserebbe ora Nadar che ospitò nel
suo studio i primi impressionisti
nel 1874? Avrebbe mai immaginato dall'alto della sua mongolfiera quando era
intento a fotografare i tetti di Parigi che un giorno la gente non avrebbe
aspettato sedute di pose prima che lo scatto fosse completato? O peggio ancora,
ci si è scordati forse dell'ansia post vacanze quando si portava a sviluppare
il rullino da 36 foto di cui buone ne rimanevano forse la metà? L'attesa, la
curiosità, la stessa ansia di vedere le immagini fissate a suo tempo sembra
ormai perduta.
No, non si
condanna l'avanzamento tecnologico né il tempus
fugit, si costata come l'uomo dalla frenesia moderna della velocità e del
tutto-e-subito senta forse più il peso dell'attesa e del silenzio che manca.
Tornano alla
mente le fotografie inquiete più che inquietanti di Diane Arbus, dei corpi catturati di Helmut Newton e, Robert Mapplethorpe
dei giochi surreali di Man Ray, dei
paesaggi parigini di Henri
Cartier-Bresson, delle violenze visive e fisiche di Nan Goldin, dei ritratti di Herb
Ritts e delle composizioni di David
LaChapelle, delle provocazioni hard di Terry
Richardson, di tutti quei fotografi e artisti che hanno tramandato scatti
epocali e che sono diventati di uso comune, linguaggio di tutti in cui ci si
rivede, si sogna o si trasmettono le stesse emozioni bloccate allora.
Più che normale
che arrivi quindi ai nostri giorni la forza e la voglia di arrestare il momento,
di non farsi scappare l'occasione, di non permettere a nessuno di scordare
quello che si vive e di volerlo tenere e comunicare a tutti.
Più che normale
avere il sentore che quello che accade ora poi scompare e non ritorna più,
bisogna conservare questi "attimi fuggenti", ricordi, pensieri belli
che, come biscotti rinchiusi in una biscotteria, poi ogni tanto si tirano fuori
e si assaporano, petite madeleine
proustiane contemporanee.
Più che normale che
nello scatto di abnorme normalità risultano quindi insignificanti immagini di
cosa si è mangiato o di particolari privi di contenuto alcuno se non quello di
fermarsi e pensare.
"…farò
quel che potrò" recita un'anonima frase scarabocchiata da un ignoto
writer in angolo di Padova: tutti si
fermano davanti a quella colonna a fotografare quel pensiero scritto, in fondo
si cerca l'unicità delle cose, anche con lo scatto personale, anche con la
frase lasciata in sospeso che ognuno completa come crede.
In amore? Farò
quel che potrò. Nelle cose? Farò quel che potrò. Nel giorno del mio compleanno?
Farò quel che potrò. Con una foto? Farò quel che potrò.
Con uno scritto
e con un pensiero, farò quel che potrò.
Si è pronti? Si scatta,
si vede, si è.
Ps: buon compleanno :-)
Massimiliano
Sabbion
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