“Per essere, bisogna apparire” recita un
vecchio modo di dire, perché bisogna apparire? Perché bisogna sovraesporsi e
mettersi in mostra? Conta davvero così tanto la visibilità?
Nel mondo
contemporaneo invaso da social network
e tecnologia tutto si fa più facile e le nuove pubblic relation arrivano attraverso scambi multimediali e
virtuali che finiscono per far apparire più che essere.
Ogni giorno il
primo pensiero diventa la “droga della visibilità”: cliccare con cuori o like i vari post dei social,
controllare quante sono le visualizzazioni dell’ultima foto o frase preconfezionata,
quanti “mi piace” sono stati messi,
verificare cosa dicono, pubblicano, commentano e inseriscono gli altri… diventa
un lavoro sociale capire e carpire il “segreto del successo” dell’apparire.
Alla fine di
tutto questo percorso ciò che rimane è solo lo sfogo emozionale di una
generazione sempre più in rete e sempre meno concreta, ma bisognosa di
riconoscimento e riconoscimenti.
Nuove formule
ansiogene prendono il sopravvento: “oddio
oggi ho ricevuto cinque like in meno di ieri”, “sono le 11.00 devo postare il
mio pensiero quotidiano #piccolidettagli”, “i particolari sono tutto e fanno la
differenza, ecco perché metto ciò che mangio, come mi vesto e dove sono, che si
sappia!”, “hashtag, datemi un nuovo #hashtag!”, “pronti? Selfie!”, siamo
quindi arrivati, dopo l’era digitale, ad un nuovo tempo? Si, il tempo del “pubblico,
dunque sono”.
Si abbandona l’App usata e abusata a favore di un’altra
App più divertente, immediata e di
impatto! Si pone l’accento sul nuovo, sulla ricerca di se stessi anche
attraverso l’enfasi di essere sempre in prima linea! Mi riconosci? Ottimo, per
cui esisto e ci sono! La vita social
non può essere fatta di punti di domanda, ma deve essere costellata da puntini
di sospensione…e di punti esclamativi! Perché? Perché si deve essere sempre
vaghi ma con certezza! Quindi…il pensiero…sospeso…crea emozione e aspettativa…ma
con un punta di entusiasmo e orgoglio!!!
Pubblico. Dunque
sono? Costantemente si è etichettati come un popolo di poeti e scrittori, ma a
ben vedere non di lettori, costa fatica “contaminare” il proprio Io con un poca
di umiltà e di studio, capita sempre più spesso anche con chi si occupa d’arte:
improvvisati curatori e storici dell’arte, artisti “fai da te” che si fermano
al “colpo di genio” senza andare oltre, corsi e concorsi con “ricchi premi in
danaro” che non portano a nulla.
Dall’altro capo
della matassa si assiste invece sempre più ad una visibilità da marketing e merchandising,
si affossa la cultura disertata nei suoi valori e negli spazi: conferenze
semivuote, ricerche non supportate e finanziate, poco coraggio imprenditoriale,
mostre e artisti di bassa qualità che fanno parlare i giornali e le tv, ma
presto scordati.
È questo il
futuro che ci aspetta?
Eccone un
esempio, è una foto scattata all’interno del museo Rijksmuseum di Amsterdam, si tratta di un’istantanea che vede
come protagonisti i maggiori fruitori della tecnologia contemporanea: gli
adolescenti.
Dall’immagine
risulta chiaro alle loro spalle il capolavoro all’interno della sala del museo “La Ronda di Notte” di Rembrandt, mentre, comodamente seduti
sui divanetti davanti all’opera, alcuni ragazzi portati in gita dall’insegnante
di turno, sono intenti e molto più presi a verificare i loro smartphone che secoli di cultura e arte che
spuntano dalle loro teste chinate.
Si è gridato
allo “scandalo”, alla “fine della civiltà”, a menti che sono annebbiate senza
scampo e ubriacate da ignoranza e poco apprendimento…questa è la lettura di chi
si sofferma e giudica con gli strumenti dell’esteriorità perché la contemporaneità porta con sé un
grande difetto: giudicare ciò che appare.
Non stupiscono
quindi immagini di questo tipo che risultano interpretabili a seconda di chi le
legge, spesso ci si ferma, per l’appunto, alla sola apparenza vagliando senza
indagare.
Un’immagine
attira l’attenzione, ma quanti si soffermano a capire cosa ci sta dietro e cosa
significa? Un’immagine fa da corollario alla copertina di un libro, ma non è il
libro stesso.
Il Rijksmuseum
museo si è sentito quindi in dovere di “difendere” quei giovani e di spiegare quella
fotografia: i ragazzi qui ritratti e chinati sui loro cellulari non stavano
affatto ignorando le opere d’arte, ma stavano imparando per mezzo di un’App, grazie alla tecnologia.
Non tutto è
perduto, non è sempre vero ciò che appare, ma la realtà si confonde molte volte
con un pensiero un po’ triste: tutto è virale e si diffonde, tranne la verità.
Massimiliano
Sabbion
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