Io lo sento,
all’inizio è sordo e lontano poi si fa sempre più distinto: è il rumore delle
onde che si infrangono sulla spiaggia, lentamente e stancamente, un rumore ritmico che culla i pensieri e si ripete,
onda dopo onda.
Si accompagna
poi un profumo salmastro nell’aria con l’acqua che fluisce sulla sabbia a riva,
a volte lenta e carezzevole e in altri momenti violenta ma mai doma, come uno
schiaffo improvviso che non fa male, ma risveglia i sensi.
E in mezzo le
urla di uomini, in molteplici lingue dal suono antico e sconosciuto, voci
indistinte di chi dà ordini, parla, impreca o discute sottovoce, sono voci di
marinai, di antichi eroi, cavalieri e vincitori di un tempo che si traghetta da
una sponda all’altra verso l’infinito.
Un mare che
soffia rabbioso con il vento che lotta con la spuma bianca dell’acqua, e un
pittore, Raffaele Rossi, fermo, lì sul bagnasciuga che guarda
l’orizzonte e fissa su tavole di legno quello che si percepisce: blocca il
rumore, il rumore che fa il tempo quando lo si ferma, dove tutte le energie si manifestano
con la forza del colore e della materia.
Mi avvicino
insieme a Guido al pittore, sospeso in un tempo indefinito come le sue opere
che vedo distese sulla sabbia: sono relitti antichi che il mare riporta, vecchi
legni, pezzi di pavimento e muro, tutto finito nell’acqua e tutti raccontano
una storia in cui sabbia e polvere di marmo completano l’opera.
“Ciao Raffaele!” esordisce timidamente
Guido, conscio del fatto che davanti a noi si perpetua qualcosa di magico,
forse di sacro, poiché le sue composizioni sono simili ad un’icona antica che
si snoda tra forme geometriche, segni e personaggi.
Il pittore si
volta e risponde silenzioso con un sorriso riprendendo il suo lavoro sulle
opere che si manifestano sempre più, quasi scavate nell’anima, intervenendo su
di esse con le dita e col carbone, la superficie viene graffiata quasi abrasa e
incisa.
Il suo gesto
completa qualcosa che ha il sapore della magia, relegato ad un mondo
metafisico, lontano… come le voci di un passato di cui non si conosce il suono della
lingua.
È così bello
qui, così lontano da tutto e i suoni si ovattano in qualcosa di positivo, quasi
quasi mi tolgo le scarpe e metto i piedi in acqua, ma si! Mi lascio cullare un
poco da questa realtà atemporale che si stagna qui, tra il cuore e gli occhi
mentre piano piano sale una musica fatta di suoni che accarezzano armoniosamente
i sensi…
In mezzo
all’armonia che si fa sempre più forte compare l’ombra silenziosa di una
bambina che danza sulle punte e si lascia trasportare in maniera ipnotica dai
suoni, lenta, allungata nei movimenti e con gesti aggraziati si ritrova a volteggiare
dentro gli superfici della galleria, sostituendo quel mare di poco prima che è
magicamente scomparso per lasciare lo spazio ad un pavimento grigio in cui
l’anima danzante si muove.
“Quella è Neary” mi sussurra Guido
all’orecchio, silenziosamente, quasi a non voler interrompere l’atmosfera, “è una bambina speciale, un piccolo essere
che vive di danza e musica.”
La minuta
ballerina mi fa pensare ad un colore mentre la vedo ballare, penso al colore
blu e vedo in lei la personificazione di un gradazione così intensa dove tutto
riporta alla mente l’idea di pace, armonia e di una profonda malinconia.
Rimango
incantato mentre la vedo volteggiare senza meta tra una scenografia alle spalle
che ricorda il mondo della Belle Époque, quasi fosse un fantasma tra i fantasmi
del passato, tra i colori e le forme ottocentesche che trovano vita nei dipinti
alle spalle di Angelo Bordiga, dove figure
umane abbozzate dal mondo dei ricordi si perdono in parti moquette, tessuti e
scampoli e diventano parte del supporto delle tele costruite con sapienza
cromatica e compositiva.
La piccola
danzatrice sembra entrare dentro questi spazi, la piccola danzatrice allunga i
suoi piedi e le sue braccia verso questi mondi, la piccola danzatrice sembra
bloccare i suoi gesti come nelle sculture di Michael Talbot che fissano, come nata da una colata materica, le
figure di giovani muliebri ballerine del Royal Ballet in cui trasmette la
tensione, il dramma, la fluidità e la grazia.
La stessa grazia
che prosegue nei movimenti trasognati di Neary che conduce lo sguardo lontano e
che, come fumo che scompare, si dilegua insieme alla musica.
Resta la scia di
un gioco intrecciato di una foschia, le luci si abbassano e tutto si fa buio,
lo spettacolo è finito ma nel fondo si illumina un puntino rosso ad
intermittenza e il timbro di una voce si fa sempre più chiaro.
FINE III PARTE
Massimiliano Sabbion
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